Ansible, intervista a Alessandro Perilli di Red Hat

L’automazione di Ansible, intervista a Alessandro Perilli di Red Hat

Ansible è da tempo la soluzione opensource più utilizzata nell’automatizzazione IT; ne parliamo con Alessandro Perilli, GM Cloud Management Strategy di Red Hat.
Il manager ha voluto sgombrare il campo da un equivoco, tanto errato quanto diffuso: pensare che automatizzazione significhi contestualmente una riduzione dei livelli occupazionali.
Questo è falso, per una serie di ragioni. Prima di tutto, storicamente ad ogni rivoluzione industriale ha sempre fatto seguito un aumento dell’offerta di lavoro, generata da migliorati livelli di produttività. Nel caso specifico, oggi, il livello di automazione non ha certo il livello di sviluppo dei film di fantascienza, siamo lontanissimi dal pensare di poter rinunciare a risorse umane solo grazie a questo. Inoltre, continua Perilli, i compiti assegnati a playbook di Ansible sono al di fuori della portata umana. Semplicemente, delle persone non potrebbero svolgerli. Pensare di gestire (ad esempio) in modo manuale infrastrutture enormi, come quelle di un cloud provider, è impossibile.

Inoltre, le architetture enterprise stanno rapidamente migrando verso i container. La gestione di un elevato numero di container, unitamente alla diffusione di soluzioni “function as-a-service”, richiede senza dubbio un uso appropriato e diffuso della automatizzazione.
In ultimo, il manager di Red Hat ha sottolineato quanto stia diventando mission critical la velocità di esecuzione delle operazioni dei reparti IT. La rapidità è ulteriormente destinata ad aumentare in modo esponenziale grazie alle intelligenze artificiali. Già oggi, tuttavia, si vedono cyber-attack portati da IA, con tempi di reazione ovviamente istantanei, nei confronti delle difese poste in essere.

Sono queste, secondo Perilli, le principali ragioni per cui ritenere l’automatizzazione in qualche modo “ostile” al lavoro umano sia totalmente fuorviante. Quello che possiamo aspettarci è che le aziende possano sfruttare in modo ancora più efficace il proprio reparto IT, dedicandolo ad operazioni altamente qualificate e ancor più proficue.
Il manager italiano ha voluto porre l’attenzione su un tema spesso ignorato: i vantaggi della automatizzazione sono (e saranno) sempre limitati finché non ci sarà anche una standardizzazione dei processi IT. A parte poche isole felici, gran parte dei sistemi IT, anche a livello enterprise, si è sviluppato in modo quasi artigianale.
Generazioni di manager e titolari di aziende, sulla scorta delle proprie esperienze, hanno aggiunto layer su layer. Senza però una orchestrazione, senza un chiaro progetto di sviluppo, ma solo aggiungendo di volta in volta una nuova area o componente. È evidente che per godere appieno dei benefici offerti dalla automatizzazione ci deve essere un sottostante sistema IT adeguatamente standardizzato. Oggi siamo davvero lontani da questo risultato.
È difficile prevedere quanto tempo sarà necessario perché avvenga un cambiamento (anche culturale) così profondo e su vasta scala; possiamo però ricordare che di automatizzazione IT, in Red Hat se ne parla da oltre 15 anni, e recentemente la risposta del mercato è diventata soddisfacente. Non aspettiamoci, quindi, rivoluzioni a breve termine.
In questo, la situazione italiana non si discosta molto da quella del Vecchio Continente: anche in questo caso incide molto il background culturale. L’attitudine al provare, e se capita fallire, è molto meno sviluppata che negli Stati Uniti. Società di venture capital sono il pane quotidiano delle startup americane, mentre in Europa purtroppo viviamo ancora il fallimento come una sorta di infamia, che inevitabilmente rende molto meno inclini al rischio. Se a questo aggiungiamo che la carriera di un CIO dura 5-6 anni, è difficile che qualcuno voglia abbreviare questo esiguo periodo proponendo cambiamenti radicali nella architettura IT della azienda per cui si lavora.