Il Salotto del MIX, intervista al Presidente Joy Marino

Il Salotto del MIX, intervista al Presidente Joy Marino

Il 27 novembre si terrà a Milano il Salotto del MIX; intervistiamo il Presidente Joy Marino che, con la consueta perspicacia, ci anticipa le novità e le tendenze di settore.

– Il Salotto del MIX è ormai una vera e propria istituzione, quali saranno, nella Sua opinione, i temi più importanti che saranno presi in esame in ambito TLC e ICT?
Ringrazio del complimento! Io credo che il successo del nostro evento nasca da almeno due fattori: da un lato ci viene riconosciuta una certa competenza nel settore Tlc/ICT e cerchiamo di parlare di quello di cui abbiamo esperienza diretta, dall’altro cerchiamo sempre di essere specifici e di affrontare un tema solo alla volta. Ogni anno il momento più critico per noi è a inizio anno, quando dobbiamo decidere “di che cosa vogliamo parlare quest’anno”.
Anche questa volta la scelta è stata difficile, ma il tema è sicuramente “caldo”. Vogliamo parlare di come il mondo sia cambiato, di come ci siano piattaforme tecnologiche che impattano la vita quotidiana di tutti noi, e anche se queste piattaforme siano ormai talmente consolidate da essere immutabili oppure se ci siano ancora opportunità per nuove iniziative.

– La pervasività delle applicazioni e dei servizi in Rete ha raggiunto ogni angolo del mondo. Quali sono a Suo avviso le tecnologie e i servizi che hanno davvero cambiato la nostra vita quotidiana? Perché?
11 anni fa è nato quell’oggetto che “è un telefono, è un iPod, è un terminale Internet, è un computer”, che è sempre connesso in Rete e che portiamo sempre con noi.
A partire dal 2000 è cambiato il modo di utilizzare i mezzi di calcolo: non più hardware sofisticato e sempre più complesso, reso affidabile con fatica e costi crescenti, con un grado di parallelismo inevitabilmente limitato, ma hardware semplice, a basso costo e bassa affidabilità, replicato in centinaia di migliaia di moduli, organizzato tramite software che rende la potenza di calcolo “liquida” e affidabile. Questo è il Cloud Computing.
Non avremmo il search o le mappe di Google, il social di Facebook, l’intelligenza artificiale di Siri o Alexa senza il Cloud Computing. Nemmeno la fantascienza era riuscita a immaginare qualcosa di simile: anche i robot di Asimov dovevano portarsi dietro un ipotetico cervello “positronico” per vivere in mezzo agli umani…
Tutto questo si è basato su – e ha a sua volta sollecitato – lo sviluppo della Rete globale e pervasiva, nonché di Data Center enormi ed efficienti; un’infrastruttura globale e pervasiva che, ricordiamolo, cuba il 10-15% di tutti i consumi di energia elettrica del mondo.
Perché. Difficile capire la ratio di questo cambiamento epocale, anche a posteriori. Probabilmente c’entra la globalizzazione di per sé, la caduta delle barriere tra le nazioni, il lungo periodo di pace – quanto meno nel Primo e Secondo Mondo, a seguito della fine della WWII e poi della caduta del Muro.
In termini economici, poi, si è passati dal capitalismo basato sulla legge dell’economia di massa e dell’integrazione verticale, al capitalismo dell’economia in rete dove i costi di transazione sono infinitesimi e vale la legge di Metcalf: il valore è proporzionale al quadrato del numero di elementi connessi (o perfino al cubo se pensiamo al valore di una social network, dove gli individui non sono solo “interconnessi” tutti con tutti, ma sono essi stessi anche i produttori dei contenuti fruiti).

– L’evoluzione dell’ultimo decennio ha portato a trasformazioni globali semplicemente impensabili nei primi 2000. Cosa resta ancora da fare per ottimizzare e migliorare i servizi per la cittadinanza e lato business?
Posta così la domanda sembra presupporre una sorta di “Intelligent Design” in base al quale siamo a metà di un progetto a favore dell’umanità. Direi che non c’è nulla di tutto questo: parte dei servizi che sono stati inventati (alcuni con grandissima lungimiranza, bisogna ammetterlo) sono nati perché c’era una potenziale domanda, bastava confezionarli e “si sarebbero venduti da soli” (la viralità dei canali di acquisizione clienti è una delle grandi innovazioni di questo secolo). Però ci sono altri – e tanti servizi – la cui utilità sociale è quantomeno dubbia che pure sono diventati indispensabili.
Dove ci sono opportunità per nuovi servizi che abbiano lo stesso successo delle piattaforme ormai affermate? Tutti parlano di IoT, ovviamente, e hanno ragione. Vorrei dare un solo – piccolo – contributo. Si parlava di Smart Cities fino a qualche tempo fa, le mode passano, ma la realtà con cui dobbiamo avere a che fare rimane. In un’ottica IoT, per essere “smart” le nostre città, devono in primis essere innervate di sensori per qualsiasi necessità, in modo direi quasi “biologico” e universalmente fruibile per tutti.
I sensori esistono già ovunque e ce li portiamo indosso tutti; ad esempio Carlo Ratti al MIT ha realizzato numerosi esperimenti su questo, che però “esperimenti” rimangono. Da genovese l’idea di poter rilevare i movimenti, le vibrazioni, le smagliature di un ponte molto trafficato così come monitorare il respiro di tutta una città in modo continuo e automatico, come fosse un organismo biologico, mi colpisce particolarmente.
La tecnologia esiste tutta, e se qualcosa manca si può aggiungere senza grandi costi. Quello che manca è una nuova definizione dell’equilibrio tra privacy e bene pubblico, che renda fruibili i dati dei sensori che ci portiamo addosso, così come i dati epidemiologici, le analisi del genoma e quanto altro possa essere utile per la comunità, senza diventare un’indebita intromissione o un pericolo per la privacy di ogni singolo individuo.

– La capacità di essere e rimanere “open” è la parola chiave dell’intero ecosistema Internet, quali implicazioni comporta questa linea di pensiero in un mondo sempre più digitalizzato e data-driven?
Provo a rispondere in modo indiretto.
25 anni fa, quando avevo appena iniziato la mia avventura in Internet, uno dei meme in voga – di cui mi appropriai allora – faceva riferimento alla “Great Famine” irlandese che intorno al 1840 provocò la morte di un milione di persone e la migrazione negli US di altrettante. La carestia fu provocata dalla peronospora che azzerò la produzione di patate, monocoltura basata su un’unica varietà, principale cibo dei poveri. La lezione era “le monocolture sono pericolose”. Da simili disastri sono nate le banche del genoma di tutte le piante catalogate dall’uomo, ad esempio. Per Internet il meme affermava: attenti alle monocolture, ci vuole diversità, bisogna dare la possibilità a idee nuove di non essere uccise in culla, non dobbiamo diventare tutti mangiatori di patate e di una sola varietà.
Essere “open” è un’assicurazione che sottoscriviamo a favore dei nostri figli e un’assicurazione nei confronti di qualsiasi epidemia (informatica). Un mondo digitalizzato e interconnesso è potenzialmente pericoloso, ma un mondo in cui non ci sia la possibilità di accedere ai dati per provare a fare qualcosa di nuovo, qualcosa a cui nessuno aveva mai pensato prima, è un mondo che è destinato a sclerotizzarsi. Molte grandi innovazioni sono nate da chi pensava “out of the box”, da chi faceva “bricolage” innovativo. Noi abbiamo avuto queste opportunità, i nostri figli devono poter fare altrettanto.

– Più in generale, quale osservatore privilegiato, ci racconta la Sua visione di ciò che potrebbe accadere nel medio periodo, nel mondo IT e TLC, da qui al 2030?
Ho avuto il privilegio di veder nascere quest’industria di Internet che avevo 40 anni, ora viaggio per i 67, mi si permetta di credere che tra una dozzina d’anni avrò altre priorità che l’andamento della Rete.
Però mi sovviene che il Salotto 2015, uno dei più divertenti che io abbia contribuito a realizzare, era intitolato “the Next 15 Years”, proprio in tema!
Per i saluti finali al termine della tavola rotonda di quell’evento avevo preparato in gran segreto dei cappelli a cono che, richiamando la buon’anima di Umberto Eco, recitavano “Apocalittico e “Integrato” (dovrebbe ancora esserci una foto nel sito di MIX).
Li distribuii a tutti gli speaker, secondo la posizione che ognuno aveva espresso, e mi pare di ricordare che ci fosse una discreta prevalenza di ottimisti rispetto a pochi “apocalittici”.
Sono curioso di vedere come andrà a finire.