Il processo di migrazione, in qualsiasi contesto IT, può nascondere insidie e difficoltà; quando si parla di cloud risulta determinante un approccio analitico scrupoloso.
L’approccio “cloud first” sta progressivamente contaminando tutte le realtà professionali, finanche gli ambienti più conservativi e le imprese più piccole.
Come ha evidenziato Gartner in una recente analisi di settore, entro il 2020, il 90% delle organizzazioni adotterà servizi di infrastruttura basato sul cloud ibrido. Non solo, stando agli esperti di Forrester, sempre entro due anni, il mercato globale del public cloud crescerà dagli attuali 146 miliardi di dollari a 236 mld USD.
Molte realtà hanno da tempo abbracciato la filosofia cloud e rappresentano oggi modelli di efficienza e dinamismo. Per queste aziende, e non solo, la necessità di dover cambiare il proprio cloud provider può rappresentare una eventualità non proprio remota.
In questo senso, è importante sottolineare come la sempre più rapida adozione di ambienti multi-cloud abbia accelerato e amplificato i processi di migrazione. Per i clienti che scelgono il cloud, risulta di fatto logico e ponderato disporre di più piattaforme su misura, dislocate presso svariati service provider.
Anche questo rappresenta un segnale inequivocabile del cambiamento, caratteristica distintiva del mondo ICT. Solo alcuni anni addietro, infatti, lo spostamento di una intera infrastruttura monolitica non era neppure preso in considerazione e valutato come troppo complesso ed estremamente rischioso. Il trend moderno vede invece un’attività quasi costante di riallocazione delle risorse, e questo vale anche per il cloud. Le aziende scelgono infatti di migrare solamente alcune parti della propria infrastruttura, optando per provider specifici e adatti ad ospitare determinati servizi e architetture.
Perché avviare una migrazione tra cloud provider?
Le motivazioni sono svariate e, in un mercato turbolento e in rapido cambiamento, anche solo la scelta di tariffe più vantaggiose di quelle in essere può costituire una valida motivazione. Ma c’è dell’altro, naturalmente.
Le ragioni che portano alla migrazione di una intera infrastruttura o solamente di una porzione ben definita, includono il livello di servizio e di esperienza che il cloud provider può garantire. Taluni provider, magari particolarmente vantaggiosi sotto il profilo economico, non sono in grado di erogare servizi di qualità, oppure non ne erogano affatto. Da non sottovalutare, poi, i Service Level Agreement (SLA), strumenti contrattuali con i quali si definiscono le metriche di servizio che dovranno essere rispettate da un fornitore di servizi nei confronti dei clienti. Parliamo di norme e obblighi contrattuali fondamentali e stringenti.
In altri casi la migrazione è determinante per garantire il necessario equilibrio geografico in termini di distribuzione dei dati, oppure per non rischiare il cosiddetto vendor lock-in. Di fatto, oggi, buona parte dei cloud provider utilizza differenti tecnologie e architetture, spesso senza rendere pubblici i dettagli completi della struttura o quelli relativi alla progettazione degli ambienti. Per esempio, gli Amazon Web Services sono basati su differenti tecnologie che Amazon ha coniugato opportunamente per il proprio cloud. Per citare un altro big del settore, Microsoft Azure impiega tecnologie Windows Server e .NET, un particolare che rende complesso il funzionamento di applicazioni non “Windows-based”.
Proprio per questi motivi si parla di lock-in, un forte legame di dipendenza dal provider, tale per cui il cliente si trova vincolato al proprio fornitore cloud per via del gran numero di possibili problematiche che si potrebbero presentare durante la migrazione di dati, servizi e applicazioni.
Fatte salve le dinamiche di dipendenza cliente-provider, da un punto di vista tecnico la migrazione da un fornitore cloud ad un altro non dovrebbe creare problemi insormontabili. Piuttosto, quando il volume dei dati è importante, l’attenzione dovrà essere incentrata sugli sforzi necessari in termini di tempo e di costi. La medesima accortezza deve essere osservata nel caso di cambiamento dei servizi di rete da un provider ad un altro.
Un ragionamento diverso si impone quando si tratta di migrare le applicazioni, dato che, in molti casi, le tecnologie che utilizzano i service provider non sono le stesse, dettaglio che rende molto complessa una migrazione senza soluzione di continuità. Applicazioni ottimizzate e personalizzate per essere eseguite su specifiche piattaforme mal sopportano il cambiamento di condizioni operative e la modifica delle variabili d’ambiente. Secondo la prassi abituale l’applicazione dovrà essere programmata e personalizzata nuovamente, per soddisfare i requisiti tecnologici del nuovo provider.
Secondo questa logica, l’adozione di soluzioni open source, come per esempio OpenStack, può semplificare e ridurre i costi di adattamento delle applicazioni. Diversamente, la modifica del codice potrebbe costituire con facilità una importante voce di bilancio all’interno dell’intero processo di spostamento tra cloud.
In definitiva, se si prevede il passaggio da uno specifico provider ad un altro risulta certamente opportuno avviare una scrupolosa analisi atta a individuare differenze architetturali e operative tra le due realtà. In generale, l’inserimento dei dati e delle singole applicazioni costituisce un’attività relativamente semplice, mentre il trasferimento delle applicazioni verso una nuova piattaforma cloud risulta più complesso e costoso. Proprio per questo, le organizzazioni che stanno valutando soluzioni cloud dovrebbero riflettere anzitempo ed elaborare da subito una strategia di uscita per il futuro. Molte aziende non sono pienamente consapevoli di quanto possa risultare complicato abbandonare il fornitore per una qualsiasi, valida, ragione (cambio di strategia, taglio del budget, scarsa soddisfazione dei servizi…).